lunedì, aprile 11, 2016

Oggi


Amici!
Insegno inglese a bambini che mi mettono in crisi e mi divertono un casino.
Ho vinto un sacco di lotte e altre ne vengono e verranno. 
Scrivo poco, pochissimo, ma scrivo. 
Un racconto pubblicato in questa antologia
Un articolo perché mi ero incazzata.
Ho tante cose che bollono in testa e nella vita e come dire, ogni cosa sarà cotta al giusto momento.
Non dopo, non prima.
Certe mattine mi sveglio che ho ancora i piatti da lavare, il naso che cola e le ginocchia che gniccano, le ore che si mangiucchiano l'una con l'altra e la biancheria umida in lavatrice, e mi viene da pensare
"forse ho sbagliato tutto nella vita se a quest'ora sono qui a far asciugare le mutande al sole sul davanzale", e non ho tempo di mettermi alla scrivania a scrivere.
Scrivania che era di mio nonno, scrittura che è la mia.
Però so, da qualche particina luminosa dentro di me, che è un caos potente e positivo quello che mi permea. 
Dunque navigo e ballo in questo maelstrom felice, fiduciosa, senza dubbi che ogni mio sogno si avvererà concretamente quando è giusto che sia.
Tutto arriva, tutto.
Ieri l'altro mia sorella mi scrive sul petulante Whatsapp 
"grazie di essere viva".
"La notte che sei stata ricoverata, cinque anni fa, passavano la canzone di Jovanotti Tutto l'amore che ho e adesso ogni volta che la becco in radio piango. Mi ricordo la mamma che piangeva e aveva paura, io che avevo paura e tu in ospedale. Così grazie per essere viva adesso".
Ecco a volte, nonostante tutto ciò che si ha di bello intorno e dentro, non ci si rende conto di essere davvero vivi adesso, e c'è bisogno che sia qualcun altro a ricordartelo.
Grazie di tutto, quindi.
Grazie in ogni momento.

Oggi dalle 19 alle 20 sarò in diretta su Almaradio a parlare con Bob Ferrari nel suo show. 
Ci vado come scrittrice, come tipa che a vent'anni ha deciso di aprire un blog che l'ha portata veramente lontano. A conoscere tantissimi amici, a conoscere il buddismo, a conoscere l'uomo della sua vita, a scrivere due libri e tanti, tanti racconti, a viaggiare, a spalancare le proprie prospettive.
Questo blog che l'ha portata così lontano da essere ancora qui, dopo undici anni di intensissima esistenza.
Grazie a tutti voi che ogni volta che scrivo mi leggete. Vi sento tutti dentro. 
Già che ci siete, quando avete finito aprite la porta?

Per ascoltare la diretta radio di stasera clicca qui





domenica, novembre 15, 2015

Les Autres


Ho acceso tre candele ieri sera; una per il davanzale del tinello, una per il balcone del salotto e un'altra per la camera da letto. 
L'ho fatto perché era bello vedere le fiamme ondeggiare nel buio, perché il fuoco allevia e sterilizza, e perché succede in questi casi un qualcosa di una forza inarrestabile, incontenibile, devastante.
Si ha bisogno degli altri. 
Allora cerco sui canali di informazione, su Sky tg, su France 24, sulla BBC, benedicendo tutti gli anni passati a studiare le lingue, qualcuno che dica "ma ce la faremo". "Ma non è tutto perduto".
"Mais on peut reussir à vivre". 
Qualcuno, un giornalista, un esperto, un professore che faccia da papà nell'emergenza e rassicuri che l'Europa, mai colpita da un attacco tanto grave dalla seconda guerra mondiale, può reagire, è pronta, unita e compatta nell'obiettivo di giungere alla pace.
Quello che trovo è l'ignoranza crassa da fila alla posta di Salvini, che raggruppa tutti, dal bambino libico sbarcato a Reggio Calabria al portavoce della comunità musulmana di Parigi sotto il nome di "terroristi" dai quali difenderci a colpi di lupara; 
è Alfano che scuote la testa dinnanzi all'enormità delle cose che dovrebbe cercare di spiegargli, ma forse non ne ha né il tempo, né la voglia né le capacità.
Il nostro ministro della difesa -una donna, ma voi lo sapevate? E ne ricordavate il nome, prima di ieri?- che dice che in Siria non possiamo andare a bombardare senza sapere davvero cosa stia succedendo, senza avere un piano ben preciso, solo per reagire a un attacco.
Si ha bisogno degli altri, allora vado su Facebook.
Per prima cosa compare la lunga lista di amici che vivono a Parigi e che confermano che stanno tutti bene. 
Mando abbracci virtuali e messaggi di meno male.
Poi, la lista ancora più lunga di amici tristi e di conoscenti del tutto impazziti, inneggianti una contro-jihad che parta dalle loro camerette col piumone di Pluto, a suon di "facciamoli fuori" ed "era meglio se annegavano".
Si ha bisogno degli altri.
Sabato mattina per prima cosa avevo alle otto un appuntamento per recitare, cioè pregare, insieme ad alcuni miei compagni buddisti.
Io non ho molti strumenti. Non ho lo studio dell'assetto geopolitico mondiale, non ho la conoscenza approfondita delle religioni, non ho viaggi in medio oriente alle spalle, e sto entrando solo da pochi anni nel mondo della pratica assidua di una fede.
Ma posso pregare. Ho questo, ho lo stare insieme per sperare che le cose cambino, credendo fermamente che lo faranno, muovendomi perché lo facciano.
Gli altri di cui ho bisogno erano vicini a me nella preghiera, e di questo sono grata.
Gli altri di cui ho bisogno dicono anche che i musulmani sono cattivi, che è inutile provare tanto dolore per i morti a Parigi se poi per gli studenti decapitati all'Università in Kenya non spendiamo una parola, che la religione stessa è inutile, che il dolore stesso è inutile, che scrivere e pensare è inutile, adesso, che bisogna starsene tutti zitti muti e non perdere tempo con sentimenti e preghiere. Che Oriana Fallaci nel suo delirio di odio cristiano aveva ragione e adesso sta a noi scatenare guerre. Che Gandhi o la diplomazia, invece, non hanno ragione mai.
Anche di questi altri ho bisogno.
E ne ho bisogno perché devo capire chi sono io.
In questi momenti più che mai, devo sentire che io sono viva.
Che non ero a Parigi a sentire gli Eagles of death metal venerdì sera, ma a mangiare cibo thailandese in centro a Bologna, seduta accanto alla mia amica iraniana e servita da un cameriere pakistano.
Che sono buddista e fermamente credo, secondo la mia fede, che ogni persona -ognuna, ognuna, ognuna- è un Budda. Che è mio compito considerarla tale. Che è da lì, dal profondo rispetto per tutti - per tutti, per tutti - che parte la pace. 
Che non posso, non voglio, non credo sia giusto stare zitta e celare.
Che se si soffre tanto per i parigini non si soffre meno per tutte le altre vittime del mondo.
Che a Parigi ci sono stata tante volte, che avevo l'albergo proprio in rue de Charonne, che ci ho vissuto, ci ho studiato, ci sono andata per amore e per lavoro; e per tutte le strade e le chiese e i piatti di zuppa e pane che mi sono mangiata ridendo.
Che credo nello studio, nell'avere la mente non aperta, ma spalancata al mondo, che la mia vita ha un valore inestimabile e prezioso come quella di tutti, di tutti, di tutti. 
Allora, che gli altri dicano.
Che raccontino. Che vomitino giudizi, che si perdano dietro le proprie ignoranze, le proprie idiosincrasie, i propri personalissimi o generalissimi rancori e convinzioni. Che si esprimano. 
Perché serve. Serve a capire a cosa teniamo.
Io tengo a che si arrivi ad amarci sempre di più l'un l'altro. 
Tengo soprattutto alla libertà. La più assoluta. La più pura. Di pensiero, di parola, di azione, di cambiare idea.
Tengo al dire, al dire, senza remore, senza paura.
Alla lotta contro la paura.
E se sono sola, non lo so. 
Se sono sola in mezzo a persone che cedono alla via più facile, alla via del razzismo e dell'ignoranza, della censura e dell'autocensura, mi importa.
Non voglio sia così.
Voglio una zattera, e stringermi agli altri di cui ho bisogno.
E per questo non smetto di piangere, e di accendere le mie candele, su tutti i lati della casa, perché dagli altri palazzi qualcuno si affacci e capisca che non è solo. 
Che io ci sono, e ho una vita, ancora, e delle idee, e voglia e necessità e la libertà di esprimerle, e per queste idee e questa libertà io combatto. Per gli altri, contro ogni pensiero di odio mi venga in mente.
E  non smetto di cercare chi ha bisogno di me. Chi le mie idee le vuole rispettare e condividere. Chi vuole accendere candele.
Chi ha voglia di vivere. Chi ripudia la violenza e la prevaricazione sugli altri, in ogni sua forma. 
In ognuna, in ognuna, in ognuna.


domenica, novembre 08, 2015

Il buono

L'angoscia di vivere è piuttosto semplice da raccontare.
Ti tormenti, ti rigiri, un verme senza occhi si ciba delle tue budella. Le stanze si curvano su loro stesse fino a inglobarti e non c'è nulla di più pesante e cementifico delle lenzuola del tuo letto, al mattino, e non c'è nulla che possa farti alzare, per tutto il giorno.
Il cervello si spegne, si atrofizza il cuore. 
I diari e i romanzi si riempiono di immagini che sgorgano abbastanza veloci da questo male e si prova anche un sottile piacere -destinato a svanire assai in fretta, altrimenti non si sarebbe dei gran depressoni- a decorare fogli di carta e fogli di blog con le proprie grondanti sofferenze.
Raccontare lo stare bene, per contro, è difficilissimo.
Quando si sta bene si vive e basta.
Io immagazzino. 
Colline verdi fluorescenti. Raggi di sole, aria fredda. Un bicchiere pieno di matite colorate, con la punta nuova nuova.
I pavimenti puliti. 
L'autobus puntuale. 
Le scarpe calde e togliersele per giocare con i bambini a scuola. 
Nel profondo del profondo della sofferenza, tutto questo c'è.
Ci sono i prati, ci sono le vetrine con dentro i dolci e i bottoni.
Ma non lo si vede per niente. E quindi, alla fine, si racconta di niente.
Per raccontare bene, credo, si devono provare sia lo stare molto male che lo stare molto bene. 
Tutto questo l'ho pensato mentre imbottivo un pollo con la crema al burro e aromi. 
Si prende un pollo di circa un kg e mezzo (perché quello che ho comprato ieri pesava così. Se ne avete comprato uno da due chili, prendetene uno da due kg). Lo si mette in una teglia di ceramica bianca, ovale, dai bordi alti (la mia preferita. Avete quella rettangolare dai bordi bassi di una sottomarca della Cuki? Va benissimo anche quella).
In un mortaio si tritano: salvia, rosmarino, aglio, sale grosso, maggiorana, prezzemolo, timo e tutto quello che esce dall'armadietto del casino della vostra cucina e vi dia l'idea che possa condire per bene un pollo (sì, comprese le stecche di cannella vecchierelle).
Poi si sceglie una bella ciotolina e vi si versa il trito di erbe. Ci grattate dentro anche la scorza del limone avanzata dalla preparazione della torta di mele del giorno prima. 
Infine recuperate il panetto di burro lasciato fuori dal frigo dopo la colazione. Ne staccate un bel pezzettone e lo mettete anche lui nella ciotolina con le erbe e il sale. 
Impastate con le mani. 
Prendete il pollo con le mani tutte imburrate. Lo spalmate dentro e fuori con 'stintruglio meraviglioso; alzate la pelle, massaggiate le cosce. Quel pollo è stato allevato e ucciso perché voi possiate ora godere della sua carne. Sceglietelo con cura: non allevato in gabbia, poverino. Non da allevamento intensivo, se riuscite. Sceglietelo felice, che abbia fatto una bella vita, e vi ripagherà con un sapore paradisiaco. 
Poi l'ho messo in forno, tutto imburrato e con nel busto conficcato il limone intero dalla buccia grattata.
Sono qui che aspetto che si cuocia. 
Prima di accendere il computer mi sono lavata le mani e il burro ha reso la mia pelle liscissima, quasi impermeabile. 
Ho pensato alla domenica. 
Domenica: ragù, pollo arrosto con le patate.
Ho pensato all'attesa: riposarmi un po' dopo aver pulito casa e fatto da mangiare.
E allo stare bene. All'avere pace, all'avere abbastanza da mangiare.
All'importanza delle pause.
Al metodo. 
I due metodi che sto seguendo adesso, Flylady e una dieta dimagrante, insistono entrambi nel sottolineare quanto sia fondamentale darsi una tregua.
Dopo tre quarti d'ora passati a pulire, perché accanirsi ancora? Hai già fatto a sufficienza. Stendi i piedi su una sedia e riposa.
Dopo sei giorni passati a controllarti molto nel mangiare, perché privarsi di un pasto proprio come lo vuoi? Preparati qualcosa di davvero gustoso e che desideri, e preparalo proprio come andrebbe preparato, e goditelo.
Non c'è nessun vantaggio nel punirsi. 
Non c'è nessun beneficio duraturo che nasca dalla privazione.
Perdònati.
Oggi è partito davvero bene. Mi sono svegliata con accanto il mio nipotino. Ho preparato la colazione, ho salutato bene mia sorella e mio cognato. Ho ricevuto un messaggio sul telefono che ha confermato quanto sia in grado di fare ciò che voglio, e bene, con successo (questa ve la racconto un'altra volta).
Ho farcito il pollo. Ho guardato fuori dalla finestra e sembra aprile, però col cielo intenso dell'autunno.
Ho i miei colori, le mie matite pronte a scatenarsi.
Il mio male di vivere c'è stato, sotto tutto questo c'è ancora.
Ci sono le mattine difficili e la voglia di non alzarsi per niente al mondo. Il dolore c'è, la sofferenza, e mentre io sono qui a cercare di raccontare lo stare bene, a dieci km da casa mia questo dolore si manifesta.
In piazza, Salvini e la Lega, forse pure Berlusconi, chissà. Odiare se stessi porta all'odio per gli altri, porta ad annientare te stesso e gli altri esseri umani; porta al chiudersi accroccati lontani dal mondo, nel diniego della natura stessa dell'esistenza, che è la luce, che è il mutuo soccorso, che è il cercare di costruire, di preparare il meglio, e che sia per tutti. Perdonarsi, perdonarsi, perdonarsi. Se stessi, profondamente, e di conseguenza tutti gli altri. Chissà se i leghisti si prendono ogni tanto una pausa da tutto l'odio becero che provano per se stessi, come faccio ogni tanto io, dalla dieta e le pulizie? Non lo so.
Quando stai molto bene, queste cose quasi non le vedi. 
E quindi, alla fine, si racconta del buono che c'è. 


domenica, ottobre 25, 2015

Un breve riassunto


Riprendo a scrivere sul Wonderful blog, trascurato così a lungo nonostante la mia vita non si sia fermata un attimo dalla pubblicazione dell'ultimo post.
O magari è proprio per questo che non ho più aggiornato? Non so.
Secondo me il grande killer dei blog è Facebook - mica solo secondo me, forse anche secondo Marshall McLuhan. Come vorrei che Marshall McLuhan fosse qui accanto a me, seduto al tavolo da pranzo, apposta per smentirmi!
Così, siccome posto che riposto su Facebook molte delle avventure e dei pensieri che in realtà vorrei pubblicare qui sul blog, ma poi non succede mai, mi sono detta
"riparto dal blog e lascio perdere Facebook per un po'."
Così, per vedere l'effetto che fa, per vedere se funziona ancora la cosa fantastica dell'aspettare i vostri commenti qui, invece che sul network sociale. Anche perché sul network sociale, insieme ai vostri commenti paciosi e interessanti, mi tocca sorbire pure quelli di gente che credo viva nella melma fluorescente e caccolosa del proprio livore. E allora insomma, perché non scegliere mille volte il blog, dove almeno posso ergermi a severo censore senza ritrovarmi intrappolata in situazioni di amicizie interrotte e faide quinquennali che manco nelle telenovelas?  Ecco.
Per prima cosa, dunque, parto dal presente per darvi un quadro della situazione generale.
C'è il sole dietro la nebbia.
Nell'aria aleggia un profumino di ciambella al cacao mista a funghi e salsiccia (mischiati solo a livello gassoso, non solido. Non sono ancora passata alla cucina sperimentale).
Se apro la finestra invece si sente come un odore di esalazione di maglioni di lana misto a castagne arrosto. 
Le foglie sono gialle, le labbra se rimani al freddo nudo di notte, blu. 
Le giornate si accorciano, le scuole ricominciano, insomma tutto nella norma.
La novità è che in una delle scuole che sono ricominciate ci insegno io, e questo è un grosso cambiamento nonché uno dei motivi principali per i quali ho trascurato il blog, insieme al maledetto Facebook.
La scuola nella quale insegno si chiama PINGU, ed è proprio quello che pensate: una scuola basata sul pinguino dei cartoni anni 70. Ah, non pensavate? Beh, di questo si tratta!
E' una meraviglia. Fino a maggio la scuola è stata un cantiere pieno di calcinacci e travi lunghe sei metri; la mia capa mi faceva vedere i progetti dicendomi "capito, qui ci sarà il bagno e qui è dove verrà la tua aula! Ti piace?" ma io che ho la mente piena di Zigo Zago e caramelle non riuscivo proprio a immaginarmela finita, e dicevo "sì sì, bello!" e me ne andavo perplessa.
Poi, a primavera inoltrata, eccola lì, in tutto il suo splendore pinguino. E' tutta blu, gialla e rosa. Ci sono le gigantografie della famiglia di Pingu appiccicate alle pareti, un enorme mappamondo, quattro aule che danno sulla strada e sono piene di sole. 
La mia è quella gialla, con il poster gigante di Pinga che esce dalla scatola delle poste, perché in un episodio suo fratello Pingu per sbaglio rischia di mandarla al Polo Nord. (Dal Polo Sud, dove abitano i pinguini; so che tutti lo sapete ma non si sa mai, io mi confondo sempre).
Ogni giorno vado in questo posto gioioso e insegno inglese a bimbi che a volte sono gioiosi e altre volte meno, ma tutti, tutti così pieni di vita da sembrare dei tubetti di tempera pronti a essere squizzati sulla tela. 
Mi diverto molto, e imparo tanto. A farmi ascoltare, ad aver fiducia in innumerevoli cose, da ciò che dico al fatto che nessuno si fracasserà il cranio a vicenda litigando per un pennarello.
Preparo le lezioni, ballo, canto, ripeto, cerco di fare in modo che, per il più possibile, tutti stiano bene e imparino a dire Hello e Bye Bye e a rispondere a proposito, che si apra un piccolo spiraglio leggendo insieme semplici storie, e che non si mangino le caccole. (Questo è il compito più arduo in assoluto).
Così, dall'essere un'autrice disoccupata incapace di scrivere un nuovo romanzo perché troppo stressata dalla torre di bollette arretrate, sono passata a essere un'autrice che piano piano scrive il suo nuovo romanzo e nel frattempo insegna inglese e riesce a pagare le bollette, quasi sempre in tempo.
Non è affatto un brutto risultato.
Come ho trovato il lavoro alla Pingu?
Grazie ad Alice, mia lettrice storica. Mi ha conosciuta attraverso il wonderful blog e mi ha proposto di mandare il curriculum a quella che è diventata la mia capa.
Questo particolare tenetelo a mente che è importante ai fini di trarre il massimo da questo post, in termini di soddisfazioni personali e reazione "WOW".

Nel frattempo, mentre rincorrevo tubetti di tempera impazziti  durante i campi estivi della Pingu, 
con il mio quartetto blues ho cantato al Porretta Soul Festival. Mio sogno da quando avevo circa undici anni. Arrivarci è stata una faticaccia vera: fino all'ultimo secondo non sapevamo se saremmo riusciti a suonare. Abbiamo dovuto sostituire Marco il contrabbassista nonché inquilino del mio cuore perché al lavoro, cascasse il mondo, quelle tre ore di permesso il 24 luglio per raggiungere Porretta e suonare, no e poi no, manco a piangere in turco. 
Così, pronti, sostituiamo Marco con la bravissima e super simpa Camilla Missio, che si impara l'intero repertorio in una sera. Poi, il 24 luglio, piove. Non pioggerellina rinfrescante e leggerina che in estate signora mia fa sempre piacere, fa respirare un poco dopo tutta questa afa. No. L'uragano Katrina in premestruo.
Nuvoloni neri, strepiti e minacce, tuoni fulmini e chicconi di grandine. Teli a ricoprire il palco, fonici schiumanti e depressione generale fino a cinque minuti prima che cominciasse il nostro concerto. Allora sole, caldo improvviso, pressione alta sia atmosferica che arteriosa, e abbiamo suonato come forse nemmeno a New Orleans, che pullula di intenditori di musica soul & visceral, nonché di uragani. 
Come ho fatto a realizzare il mio sogno e cantare sul palco del Porretta Soul facendo risuonare il mio vocione per tutto il paese?
Grazie al fatto che vent'anni fa ho guardato la videocassetta di "The Commitments", mi sono innamorata del soul e di ciò che rappresenta, non ho mai smesso di cantare e sognare di farlo, un giorno, su un palco come quello di Porretta, e poi dieci anni dopo a ventun anni ho cominciato a scrivere un blog che ha come indirizzo "Soul Proud Choppa", che è ancora qui, che di anni ne ho trentuno.
Non ho smesso, ecco. 
Diciamo che nella vita ho lasciato a metà tantissime cose. 
Ma quelle che ho sempre sentito dentro, nel profondo, dall'inizio, e forti come porte spalancate, non sono mai finite.
Si realizzano, i sogni, le cose belle, amici si realizzano.
Non smettete di sognare; non è una frase di Walt Disney strafatto di marshmallow; io credo sia la realtà. Se c'è qualcosa che avete dentro da tempo, da tanto, da sempre, fatela uscire o marcirà, vi renderà tristi e vi farà ammalare.
Io covo storie, romanzi, canzoni, avventure. Covo desideri. 
Covo ansie e dolori e pensieri negativi che mi dicono che non li realizzerò mai. 
Ma l'evidenza è qui, in ciò che scrivo e nello spazio che lo ospita.
Tutto, per me, è partito da questo blog. 
Non lo tradirò mai più per Facebook, non lo trascurerò,
Vi auguro di fare lo stesso, con tutti i vostri sogni più segreti.

(Sì, anche quelli che coinvolgono papere e nutella).








martedì, marzo 17, 2015

And the Oscar goes To...


Sono viva (più o meno).
Che bello il Wonderful Blog, che quest'anno compie dieci anni.
Giuro che non farò bilanci (per ora).
Quando "Anita friggeva d'amore" era in fase di editing, mi si diceva che le parentesi le usano solo gli scrittori non bravi, e io non dovevo usarle.
Quindi adesso mi sfogo, e ogni volta che mi capita ne uso a volontà, anche a sproposito.
Ah, che spirito ribelle e intraprendente!
Comunque non volevo parlare di questo; ritorno sul mio adorato blogghino dopo un po' perché domani realizzerò un sogno (un altro?! Una vera fùcina di realizzazioni questa Choppa!).
Però ve lo dico meglio domani sera.
Sappiate, per ora, miei cari amici recidivi e affezionati, che domani pomeriggio girerò il mio primo video sceneggiato da me, che vede come protagonista un'attrice bella brava e intelligente, più di Naomi Watts (che comunque a me non piace, la trovo slavatina).
Domani prenderà forma la mia sceneggiatura, capite? Luci, inquadrature, dialoghi, toni..tutto scritto da me.
Sono felice e una gran figa.
Così, ci tenevo a dirvelo e a farvi stare un po' sulle spine, so che non dormirete stanotte, ma abbiate pazienza.
State anche sulle spine in un altro senso, visto che oggi è San Patrizio (scusate, la battutona è per sdrammatizzare il pathos)

A domani!!







giovedì, gennaio 29, 2015

Del benessere


Keith Richards

Anni di droghe, alcool, sesso sfrenato e di dieta certamente non conforme alla piramide nutrizionale consigliata dall'OMS ne hanno fatto un uomo emaciato, con il viso come una ragnatela, le dita, seppur magiche sullo strumento, rattrappite dall'artrosi e con le analisi mediche - secondo sua stessa dichiarazione- di un morto vivente.
Tutto questo non gli ha però impedito di diventare un'icona di stile, un uomo di discreto fascino,  nonché di diventare testimonial per Louis Vuitton.

Kurt Cobain

Malato di depressione, sporco, arruffato, coi capelli a spinacio lesso sugli occhi, morto sparandosi una fucilata in faccia, è a tutt'oggi un sex symbol per migliaia di ragazze e, detto tra noi, se lo incontrassi adesso per strada pure io me lo farei.

Kate Moss

Pallida, magrissima, tossicodipendente. Non proprio l'emblema della sana fanciulla rubizza. Ha sfilato e posato per le maggiori case di moda ed è una delle modelle più pagate e famose di tutti i tempi.

Amanda Lear

Mascolina, spigolosa, androgina. Nessuno, o quasi, negli anni 70 osava dire fosse "una bellezza". E' stata la musa ispiratrice di uno dei pittori più importanti dell'arte contemporanea, Salvador Dalì.

Tess Holliday, aka Tess Munster

Grassa, grande, tanta, piena di cellulite. Un viso oggettivamente meraviglioso. E' la prima donna della sua taglia a ottenere un contratto come modella per un'agenzia di moda internazionale.
Eppure, solo a lei, tra le centinaia di sex symbol, modelli, attori, musicisti assurti a icona nonostante gli evidentissimi conflitti con il proprio corpo, si muove la critica di non promuovere un modello sano.
Le si impedisce di poter essere un'indossatrice e una fotomodella, di mostrare il proprio corpo, perché scandaloso, diseducativo, non conforme alle regole della buona vita e della buona salute.

Hai voglia a spiegare l'arte, hai voglia a dire che le donne di Avignone dipinte da Picasso risultavano un obbrobrio agli occhi dei loro primi visitatori, hai voglia a dire che la bellezza e la salute di un corpo sono faccende complesse e personali, che gli standard e i canoni estetici vanno al di là di qualsiasi convenzione, tabella e prescrizione medica; hai voglia a suggerire la lotta, l'orgoglio, le sfide e l'amore infinito che devono stare dietro a ogni foto di questa modella così tanta, e hai voglia a raccontare che i commenti sulla non ortodossia nel volerla mettere sotto contratto raggiungano la stregua delle più inutili chiacchiere da bar.

Hai voglia a dire che anche con 100 e passa chili addosso si possa essere fiere, felici, in salute, realizzate e libere di esporsi ed esprimersi come meglio si crede e, soprattutto, amate. Dagli altri, ma soprattutto da se stesse.
Hai voglia?
Io mica tanta, non più. Io più che spiegarlo, preferisco dimostrarlo ogni giorno della mia vita. E Tess mi ispira, e mi aiuta in questo. Sì, anche a stare bene. A capire che è giusto prendermi cura di me stessa a prescindere dal mio peso e dalla mia taglia.
Che l'unica persona che deve rendere conto a se stessa, sei proprio tu.
E che il bikini potrebbe stare bene anche a me!







lunedì, gennaio 26, 2015

Essere e fare


Ho un nuovo lavoro: da marzo farò l'insegnante di inglese per bambini in una scuola privata. 
Canterò canzoni in rima, inventerò giochi e laboratori, comincerò una nuova avventura.
L'anno scorso mi mantenevo grazie alle lezioni private e più volte ho pensato che mi sarebbe piaciuto moltissimo insegnare in una scuola vera e propria.
Ecco qui che ce l'ho fatta, e ne sono felice. 
Il mio desiderio di vivere di scrittura rimane, ma sta prendendo una nuova, interessante e profonda forma. 
Sto cominciando a capire la differenza tra essere scrittore e fare lo scrittore.
Io sono sicura di essere una scrittrice. Non importa quello che faccio: l'insegnante, la donna delle pulizie, la traduttrice, la cuoca, la cantante. Se non faccio niente e non ricevo risposte. 
Se cammino tutto il giorno o me ne sto sul divano a guardare la tv.
Quando vado alle prove o stendo il bucato, se mi affaccio alla finestra, se guido, quando prendo l'autobus, quando vado in piscina.
Sono una scrittrice. 
Ogni volta che compio un'azione penso a come la vorrei raccontare, questo è essere una scrittrice. 
Non è guadagnare tanti soldi con i miei libri.
Non è mettermi otto ore al giorno alla scrivania a riempire documenti Word. 
Non è andare alle presentazioni, non è stringere rapporti con chi scrive.
Non è cercare di pubblicare.
Quello è farlo, è fare lo scrittore.
Non sono brava con le apparenze, questo è un problema per chi vuol fare lo scrittore. Per chi lo è, invece, no.
Mi piace stare da sola e questo pure può essere un problema, ma non per me. 
Non osservo le scadenze e questo forse è l'ostacolo più grosso di tutti. Non per me. 
E' nata la mia seconda nipote. Ho una nonna, dei genitori, delle sorelle, delle zie e degli zii, e cugini e cognati. Ho tre gatti e una casa e ci sono le strade, i passi, la musica, i litigi, il sole, il forno, i colleghi, gli orari, le foglie, gli appuntamenti, gli occhi degli altri, i vestiti, le cose da mettere in ordine e da buttare, la fretta, le dimenticanze, i regali, la spesa, le preoccupazioni, le lacrime, la gioia, i concerti, i film, le persone. 
Ogni cosa mi esplode dentro in girandole di parole, oppure in nessuna. 
Trabocco di cose da dire. 
Io sono una scrittrice e faccio l'insegnante. Qualche volta esplodo, mi prudono i polpastrelli mi tremano i polsi, allora scrivo, sul blog sui fogli sui quaderni degli appunti.
Scrivo un libro che forse diventerà un libro.
Io non so mettere dei freni, degli argini al mio essere scrittrice. Non mi interessa; lo straripare è la mia forza.
Mi voglio bere tutto.
Mi voglio sentire piena di ciò che sono.
Non voglio chiudermi in una scatola, voglio sperimentare, voglio correre ballonzolando e scaldare il pane. 
Voglio togliermi le scarpe e rimanere in calzettoni prima di cominciare le lezioni coi bimbi piccoli.
E voglio vedere cosa c'è, di ancora bello, nel mondo. 
Ogni giorno di più, nel vortice del dolore, delle sfide, della vita, delle mutande da cambiare, del respiro, so chi sono e cosa voglio fare.
So che sono una scrittrice e voglio fare tutto. 
Per poi raccontarlo, certamente.
Per avere sempre qualcosa, me stessa, da vivere e da dire.

E tu, cosa sei? Cosa vuoi fare? Combaciano le due cose? O non ha alcuna importanza?

mercoledì, gennaio 07, 2015

Vittorie di fine d'anno

Amici, 
ve la siete passata durante queste feste?
Avete pianto ma anche giocato e amato?  Avete riso, ma anche lasagne e tortellini?
Spero di sì; io mi sono data alle pazze cene e alla pazza bronchite, nell'attesa di buttarmi a pesce in un anno incredibile. 

Così come incredibilmente ho portato a termine il 2014, nel senso che per poco non ci rimanevo secca.
Dev'essere qualcosa legato al mio karma, o a superiori piani astrali, non lo so, ma da qualche tempo, ogni fine d'anno porta per me grandi sfide e grandi attacchi tachicardici, eventi al fulmicotone, come se dodici mesi si riunissero tutti nell'ultima settimana prima di gennaio per darmi l'addio, scannandosi come fan premute alle transenne. 
Si dice, d'altra parte, che una lampadina prima di fulminarsi brilli della luce più intensa; che il sole prima di tramontare sprigioni il suo potente raggio verde, che la notte prima di rischiararsi diventi più buia. 
Certo, certo.
Però facciamo che anche basta. Facciamo che i prossimi due, tre, dieci, quindici mesi di dicembre li possa passare a cuore in pace e pancia all'aria, pensando a nient'altro che a ritagliare biscotti e impedire che l'albero caschi sotto gli attacchi felini.
E' chiedere troppo?
E' pretendere l'impossibile non lottare ogni fine d' anno contro malattie mie o altrui?
Può succedere in luglio, forse, anche se cade il mio compleanno.
O a settembre, anche se le passeggiate sono belle.
O a maggio anche se ci sono i pic nic, o tra marzo e aprile, ma si scartano le uova.
Il dolore può arrivare quando vuole, dico io. 
La mattina col profumo della colazione. 
I giovedì d'autunno quando si esce dalla biblioteca con un libro sotto il braccio. 
Oppure a febbraio, nel pieno dell'inverno, tanto si è pronti a guardarlo da dietro le finestre, come la prima neve. 
Sarebbe bello che arrivasse ogni tanto, per cambiare, in un periodo in cui non me lo aspetto.
Invece ai primi di dicembre, come ogni anno, eccolo. 
Eppure quest'anno è stato diverso. Ha portato con sé una grande convinzione. Forse già sapeva, quel dolore lì, di farmi più che spavento, ridere. 
C'hai provato, dolo'. 
Sono stata io, questa volta, a metterti addosso una paura del diavolo. 
Quasi quasi mi ha fatto tenerezza, vederlo rinsecchire come una spugna sotto il sole cocente della mia convinzione che tutto sarebbe andato per il meglio. 
E' stato l'ultimo colpo di coda di un anno tutto speso a imparare a non avere più paura. Di niente. Ma di niente davvero: del giudizio, del rimanere senza soldi, del non scrivere più, della morte, del futuro, di me stessa.
Non temo più niente, ragazzi, sono pronta a qualsiasi cosa. 
Anche a cambiare idea, nello spazio di poche righe, sul non chiedere più una fine d'anno come questa. 
Che vengano, queste preoccupazioni, che venga il dolore. 
Tanto io sono armata fino ai denti.  Quando si hanno le prove che non ci sia niente di più meraviglioso dell'esistenza ogni giorno, quando dopo due anni di lotte si arriva alla convinzione che nulla che non sia fantastico ci attende nella vita, compreso il dolore, perché sta lì solo per essere sconfitto, allora il 2015 ci si apre davanti come un'infinita distesa di albe d'argento.*

(potente, eh? Lo so, quest'immagine poetica vi è offerta gratuitamente dalla Choppa, ispirata da una colazione combo Snickers della Befana + mandarino e dal fatto che tiè, brutta stronza di una emorragia cerebrale senza speranze di guarigione, mia nonna  si è ripresa da Dio. Ti adoro, nonna. Ti adoro, Snickers. 
Adoro il fatto che io non abbia mai dubitato che ce la facessi).
E che la vita, così come il cioccolato, non mi abbia delusa.





giovedì, novembre 27, 2014

Ostinata


Ultimo post il giorno del mio trentesimo compleanno, accidenti,
la vita come corre! Il tempo come fugge! Le serie da guardare in tv quante sono!
Sono circondata dai miei gatti, nel bel mezzo di un'influenza epica, con mia nonna che lotta in ospedale per vivere. Migliora giorno dopo giorno. 
La mia famiglia è unita, la veglia e la fa ridere. Io non posso andare a trovarla proprio a causa di questa invasione di muchi e virus che mi ha colonizzata. 
Ma non importa che io sia fisicamente con lei. Ogni sera le accarezzo la mano. 
Dentro sento la stessa cosa che ho sentito quando sono stata ricoverata io, quasi quattro anni fa (quattro anni! La vita come corre! Il tempo come fugge! I dischi da scaricare quanti sono!), e poi lo scorso gennaio quando sembrava che mi fossi ammalata di nuovo, e poi a marzo con il mio problema al dente; dentro sento la stessa cosa che è come una pozza di colore, 
uno stagno d'acquerello, che si espande e prende le braccia, le mani, il petto.
Ora, non so se sia la speranza. E' qualcosa di più forte. E' la certezza che tutto andrà per il meglio. 
Che la vita ci sostiene in ogni momento. 
Quando dico ai miei amici che non devono avere paura di nulla, che anche i momenti difficili sono meravigliosi e rappresentano delle occasioni inestimabili per crescere, per approfondire, per capire meglio noi stessi e per realizzare ciò che vogliamo al meglio,  mi dicono che sono pazza, pensano che sia viziata, che io non abbia sofferto abbastanza per poterne parlare. 
E' proprio il dolore che ho provato nella vita e che mi capita di provare tuttora che mi fa essere convinta di quello che dico.
Senza il dolore non potrei spremere tutta la bellezza da ogni momento della mia esistenza.
Non potrei scriverne, non potrei immaginarla.
Stare bene ed essere felici nonostante le difficoltà fa molta paura.
E' rincuorante crogiolarsi nel buio perché lasciar perdere non richiede coraggio. 
Sperare fino in fondo è dura; significa fare i conti ogni momento con la nostra parte più oscura, lottarci e combatterla.
Si esce dalla battaglia feriti, ammaccati e sanguinanti, però felici. E il momento dopo si ricomincia. 
Non so come parlare di tutta la meraviglia che mi circonda. 
Del mio passato, delle colline, della musica, dei tappeti che ho visto nelle case che ho amato, delle cose che ho vinto, delle strade, della nebbia, della luce del sole sul mare, degli animali. 
E' qualcosa che tracima. 
Dei letti degli ospedali, delle sagre paesane, delle città, degli album da colorare, della disperazione, del sentirsi persi, fuori dai giochi, in ritardo, senza scopi. 
Del bucato la domenica mattina e delle erbe aromatiche nei cespugli in giardino.
C'è così tanto di tutto in questa vita, ci sono talmente tante strade. 
Che non ci si può che sentire già pieni in partenza, di una fame che invece di saziarsi, si autoalimenta.

domenica, luglio 27, 2014

Trenta e Contenta!


Qualche mese fa, mi pare fosse maggio, ho avuto un altro momento di crisi d'identità. Tutto l'anno è stato così, caratterizzato da inquietanti e depressivi episodi di "ma io, esattamente, nella vita, che cosa voglio fare?" con abissi di "non sono in grado di combinare nulla" punteggiati da picchi di "forse è meglio che molli tutto e riparta da zero".
Proprio quest'ultimo picco mi sono ritrovata a scalare a maggio. 
Non è molto divertente, ve lo assicuro, specie per chi sta scomodo come me con ai piedi i ramponi da alpino impavido dell'animo umano. 
Io vorrei solo far la scema, leggere i libri di Sophie Kinsella e ballare la macarena sulla spiaggia.
Invece mi ritrovo con un'indole da Sartre adolescente. 
Per forza che c'ho le crisi d'identità!
Comunque, vi dicevo, a maggio eccomi là che rispondo a un annuncio di lavoro su internet.
Mi ero stufata di non avere un lavoro fisso, di non avere soldi in tasca nemmeno per il metano per recarmi al lavoro precario, di non avere orari stabiliti, un ufficio, dei compiti precisi da svolgere.
Volevo un po' di normalità. Uno stipendio che prevedesse l'accredito sul mio conto corrente.
Una vita in cui le parole IBAN, cartellino, ferie, potessero acquisire anche nella mia vita un significato comune, condiviso, uguale a quello che hanno più o meno in quella di tutti. 
Così, pregando (letteralmente, in lacrime davanti al mio altare buddista), di ricevere una risposta, ho ottenuto un colloquio di lavoro il giorno dopo (l'altare buddista funziona, poche pippe, ve lo garantisco io).
Era per un lavoro in una web radio. Fisso, pagato. Come esperta di comunicazione web. Ho parlato per un'ora di me e di cosa intendo io per comunicazione ai due fondatori della radio. Ho parlato del mio adorato Wonderful blog, di voi lettori e di come mi abbia permesso di pubblicare due libri, tanti racconti e di entrare ufficialmente nel mondo dell'editoria da professionista. Tutto grazie alla mia mania di raccontarmi senza remore. 
Beh, loro sono rimasti colpiti. 
Mi hanno detto "che brava, complimenti. Ci piaci", e io già mi vedevo a svegliarmi tutte le mattine alla stessa ora, tutti i mesi con il mio stipendio, tutti i giorni con compiti da svolgere, risultati da raggiungere, attività da portare a termine. 
Sono uscita dal colloquio nel mio bel vestitino nero che volavo dalla gioia, nella brezza leggera.
Mi hanno fatto fare un test psico-attitudinale. Pare vada molto di moda ultimamente. 
180 domande da rispondere a crocette, del tipo:
"pensi di essere una persona divertente?" Si No A volte.

"Hai mai avuto problemi di peso?" Si No A volte.
"Pensi che il tuo futuro sarà certamente meraviglioso?"

Io ho risposto a tutto, ho inviato e ho aspettato.

Dopo un mese mi hanno richiamata, dicendomi che avevano scelto un'altra persona con più esperienza.
Però io gli ero piaciuta, davvero. Anzi, sarebbero stati entusiasti se avessi voluto curare il loro blog, con un mio canale in cui potevo scrivere tutto quello che volevo. 
Gratis.
In cambio, potevo farmi pubblicità, pubblicizzare i miei libri. 
Allora mi sono detta, per prima cosa: "cazzo, no."
E per seconda: "adesso anche basta".
Così gli ho mandato un'email. Ho usato le parole "scrittrice", "valore", "lavoro", "pagamento" e "dignità".
Ho detto che un blog dove farmi pubblicità io già ce l'ho, e seguitissimo da un sacco di lettori affezionati e partecipi, che spesso mi scrivono email e messaggi meravigliosi, pieni di gratitudine ed empatia. 
Che se davvero per loro sarebbe stato un vanto avermi tra i loro collaboratori, allora avrebbero dovuto sapere che la qualità ha un prezzo. Che non si può svendere. Che io non mi voglio svendere. 
Perché sono brava.
Ecco, questo è stato il massimo. 
Dirgli, fargli sapere che sono brava.
Ecco perché c'avevo il cuore leggero quando sono uscita, accidenti.
Mica per il possibile stipendio.
Mica per il miraggio di una vita regolare.
Mica per l'ufficio.
Ma perché, per la prima volta, ho capito che sono fortissima.

Poi, siccome sono umana e à la Sartre, ovviamente sono ridiscesa nell'abisso.
Ok, alla radio non mi hanno presa. Ora che faccio? 
Scrivo (non so scrivere. Invece sì, sono brava. Invece no).
Scrivo il nuovo libro e in tutta fretta, perché se voglio viverci, con questo mestiere (non è un mestiere. Invece sì. Guadagni pochissimo. Sì ma è il tuo) allora devo scrivere un nuovo libro ogni anno.
E poi...ho quasi trent'anni.
E lì, l'inferno. 
Trent'anni. 
Quando ero piccola, m'immaginavo che a trent'anni avrei avuto marito, figli e un lavoro fisso? Sì, No, Forse.
Non ho combinato niente. 
Eccomi qui, scapestrata, senza soldi e pure vecchia. 
Poi, in questi mesi, da maggio al 23 luglio, giorno del mio trentesimo compleanno, sono successe tante cose. 
Il mio terzo libro prende forma. Ha uno scopo, un senso, e a fine settembre lo consegno alla mia agenzia.
Le mie agenti, sotto sotto, credo mi detestino perché le faccio aspettare un casino di tempo. Eppure mi scrivono "non ti preoccupare Marta, perché questo tempo non è sprecato".
Diventerò di nuovo zia.
Ho cominciato a fare concerti con i miei due gruppi. Canto benissimo! E mi diverto un sacco. 
Era una cosa che volevo fare da quando avevo undici anni, e il percorso è stato un po' tortuoso, ma eccomi qui. 
Con amici musicisti. Con un compagno che suona con me. Con tanta gente che si scatena a ogni nostro concerto. 
Ho festeggiato i miei trent'anni con gli zii, la nonna, i cugini, il nipote che li compie pochi giorni prima di me. 
Abbiamo mangiato l'insalata di pasta fredda e la moussakà al forno piena di ragù.
"In onore di questo autunluglio!"
Ho ricevuto in dono dei tupperware, due foulard e un sacco di strofinacci da cucina (capito l'antifona, grazie, sono proprio vecchia!).
Poi ho deciso che festeggerò anche prima di partire, con tutti i miei amici, mangiando crescentine e  brindando alla nostra salute.
A quella salute che, dopo una certa età, è la cosa più importante di tutte. 
Ieri sera, subito dopo aver cantato a un matrimonio, mi sono riempita un bicchiere di Guinness fino all'orlo. 
Sono stata attenta a non fare troppa schiuma, a non farla scivolare oltre il bordo. 
Avevo i capelli sudati per il concerto e le labbra col rossetto sbavato. 
Avevo un vestito troppo scollato; nelle foto mi si vedranno le tette, ma non importa. 
Insieme, io e i miei compari, abbiamo alzato i bicchieri parlando di prossimi concerti. 
Ho sentito, in fondo, nei vassoi lucidi pieni di cioccolatini, nelle candele, nei miei piedi nudi con le unghie smaltate di viola, nell'umidità che colava dalle foglie dei cedri, che sono tutta intera.
Che sì, nel percorso fino a qui ho perso amici, denti, certezze, persino un organo. 
Ma io sono qui. Questo è il mio percorso. Quelle erano le cose che dovevo perdere, e chissà quante altre se ne andranno, e chissà quante altre ne troverò. 
Ho trent'anni. 
"Pensi che il tuo futuro sarà certamente meraviglioso?"


Sì.